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Anna ed i suoi “mostri”
La stanza è avvolta nella penombra. Solo la scrivania, ingombra di libri e scartoffie d’ogni tipo, è illuminata da una vecchia lampada da tavolo a petrolio. E’ ormai notte fonda. Mi verso un’altra tazza di caffè, ormai freddo, dal grosso bricco che ho riempito ore fa.
Sorseggio la bevanda rileggendo per la terza volta la parte conclusiva della tesi di laurea. Non ne sono ancora soddisfatto e le annotazioni e correzioni s’infittiscono sulle pagine del grosso quaderno a righe. Domani dovrò assolutamente portare il fascicolo in copisteria e non invidio il povero calligrafo che dovrà decifrare la mia pessima scrittura e le note aggiunte disordinatamente. Mancano, infatti, solo pochi giorni alla consegna della mia ultima fatica universitaria di futuro medico chirurgo. Lo studio è diventato ormai la mia unica ragione di vita.
Mi accendo la corta pipa di radica per l’ennesima volta in questa lunga veglia. La fiamma dello zolfanello si riflette per un attimo sul piccolo specchio appeso alla parete cui poggia la scrivania. Involontariamente osservo il mio viso, anch’esso riflesso come la fiamma, fino quando il fiammifero mi scotta le dita e mi distoglie da quella specie di meditazione inconsapevole.
“Spero che il cervello possa darmi qualche soddisfazione, perché il resto non mi servirà a molto” mormoro a me stesso.
Il fumo acre del tabacco di poco prezzo mi brucia la gola. Stacco lo specchietto dal muro e mi guardo.
Vedo una testa più grossa nel normale, sorretta, per un mistero della natura, da un collo esile, quasi femmineo se non fosse per lo smisurato pomo d’Adamo, puntato in avanti come la polena di un galeone spagnolo. Pochi stopposi capelli di un colore indefinito sembrano appiccicati malamente sulla sommità del cranio. Gli occhi giallastri sono incassati nella profondità delle orbite. Solo le orecchie sembrano normali ma, come il collo, sono esageratamente piccole rispetto all’enorme testone.
Ho 25 anni, l’età in cui almeno una certa freschezza può sopperire a tratti somatici non particolarmente gradevoli. Invece anche il mio colorito è grigiastro e d’aspetto malsano, sebbene la mia salute e forma fisica sino eccellenti. Ho un torace largo ma quasi deforme per la sua eccessiva ampiezza rispetto alle gambe tozze, leggermente arcuate e corte. In compenso ho due braccia troppo lunghe.
Il mio aspetto fisico, con il quale ho ormai imparato a convivere, mi ha procurato, fin dalla prima infanzia, lacrime e dolore. I compagni di scuola mi chiamavano “scimmione” o “testa grossa” o con altri epiteti ancor peggiori. Sebbene si servissero di me per copiare i miei compiti, mi evitavano accuratamente al di fuori dell’aula.
Sicché sono cresciuto solo e senza amici, senza qualcuno con cui poter giocare, ridere e scherzare. La mia bruttezza mi ha costretto a vivere da misantropo e trovare la gioia nello studio, nelle sperimentazioni scientifiche e nella lettura.
Se i maschi mi evitavano, le ragazze provavano addirittura repulsione per il mio corpo sgraziato e quest’orribile e improbabile testone. Una volta, non visto, udii una fanciulla – affatto graziosa – dire alle compagne che io ero la conferma che l’uomo discendeva dalle scimmie, come sosteneva una recente teoria. Anzi, che non avevo ancora completato la mutazione genetica. Tutte le amiche scoppiarono in una risata. Quando mi parai davanti a loro, scapparono via, continuando a ridacchiare senza ritegno e senza un briciolo di umanità o di indulgenza.
Avevo sedici anni.
A vent’anni, una ragazza – commessa in una cartoleria nei pressi dell’università – sembrò provare qualche interesse nei miei confronti. Era carina e sfrontata e me ne innamorai perdutamente.
Avevo perso i genitori da pochi giorni, ed ero l’unico erede di un buon patrimonio. O almeno così credevo. Anche Anna, la mia amata Anna cui avevo raccontato le mie vicende, lo credeva.
Un giorno fui convocato dal notaio per la lettura del testamento. Mio padre, a causa di una serie d’investimenti sbagliati, aveva dilapidato i suoi capitali e si era indebitato con banche e strozzini. Tutti gli immobili risultavano ipotecati. Non avevo più nulla. Ero solo al mondo, senza quattrini, senza una casa, ma avevo Anna.
Corsi da lei per raccontarle le mie disgrazie, sperando in una sua parola di conforto. Mi ascoltò silenziosa e torva. Quando ebbi finito di parlare, mi prese per mano e mi accompagnò nella sua camera, davanti ad una grossa specchiera.
“Conosci la storia della Bella e la Bestia?” mi chiese. “Guardami e guardati bene: se io sono bella, tu cosa sei?”.
Piansi, la supplicai, la pregai in ginocchio. Mi umiliai in tutti i modi perché non mi abbandonasse. Fu tutto inutile.
Riappendo il piccolo specchio alla parete. Ripenso alla mia piccola e bellissima Anna. “Quanto mi hai fatto soffrire, mio grande e unico amore…” mormoro sommessamente.
Apro un cassetto della scrivania. Il piccolo cofanetto rivestito di velluto rosso, ormai leggermente sbiadito, è al solito posto. Lo tiro fuori e lo appoggio delicatamente sul tavolo.
Lo apro e guardo. Le perline bianche dalle forme bizzarre ci sono tutte. Le riconto una ad una: sono ventotto. Sono tutto quello che mi resta di Anna.
Ed il mio pensiero ritorna a quei giorni.
Dopo che la ragazza mi fece uscire, piangente, dalla sua casa e dalla sua vita, mi rifugiai nella piccola mansarda che era sfuggita all’orda dei creditori. Non uscii per giorni e giorni, fin quando la fame non mi costrinse a farlo.
Iniziai così a spiare e seguire Anna, sperando di poterla fermare e parlarle ancora una volta. Tutte le volte che mi vedeva, scappava via, impaurita. Per qualche tempo si fece sempre accompagnare da qualcuno e non osai avvicinarla.
Ormai ero diventato un segugio esperto e abile nel mimetizzarmi e nascondermi alla vista della gente. Ero ossessionato e tormentato dal desiderio di rivedere Anna, di stringerla ancora una volta tra le braccia e dirle quanto grande era il mio amore per lei.
Finalmente, una mattina la vidi da sola mente si recava al lavoro. C’era molta gente nella via e quando mi vide, trasalì ma non fuggì via come le altre volte.
“Ti prego, fermati un attimo. Devo dirti una cosa che ti farà piacere.” “Cosa vuoi ancora da me?” mi chiese la ragazza, guardandosi attorno.
“Voglio farti un regalo, in ricordo del nostro amore.”
“Ma di che amore stai parlando, io non ti ho mai amato, ho solo provato un po’ di compassione per te. Nient’altro, povero illuso…” mi derise lei.
“Allora diciamo che ti voglio fare un regalo perché ti ricordi del mio amore. Quando mia madre è morta, aveva al dito un bellissimo anello con un grosso brillante incastonato. L’ho conservato per te, per fartene dono. Vale una fortuna, ma a me non importa più nulla dei soldi. Accettalo, per favore. Dopo non mi vedrai più e scomparirò dalla tua vita”.
Gli occhi di Anna brillavano per l’avidità. Capivo che era tentata di accettare quell’anello prezioso.
“Beh, se ti fa proprio piacere darmelo, l’accetto. L’hai con te?” mi chiese.
“No, lo custodisco nella mia mansarda, in un cofanetto di velluto rosso. Vuoi venire a prenderlo?”
“Non mi fido di te. Non voglio venire da sola nella tua piccionaia.”
Riuscii, con molto tatto e dopo mille insistenze, a convincere Anna a seguirmi.
Arrivammo dopo un po’ nella via silenziosa e solitaria dove abitavo.
“Stai tranquilla, lascerò aperta la porta…” le promisi mente entravamo nella mia stanza sul sottotetto.
Presi dal cassetto della scrivania il cofanetto di velluto rosso e ne mostrai il contenuto alla ragazza. Anna, che era rimasta immobile al centro della camera, si lasciò sfuggire un’esclamazione di meraviglia.
“E’ bellissimo…veramente bellissimo!”
Le infilai l’anello al dito. Il prezioso solitario rifletteva la luce del sole che filtrava dall’abbaino.
“E’ tuo, prendilo. Prendilo come hai preso il mio cuore e portalo via insieme alle mie speranze e alle mie illusioni…”
Anna mi guardò per un attimo, mormorò un ringraziamento, poi si girò e andò verso la porta spalancata.
Con un balzo felino la bloccai per un braccio e chiusi l’uscio con una pedata. Per la sorpresa, Anna non riuscì a gridare prima che con la mano le tappassi la bocca, mentre con l’altra la immobilizzavo contro di me.
“Se strilli ti ammazzo” le sibilai nell’orecchio.
Gli occhi della ragazza manifestavano tutto il terrore che provava. La sospinsi verso il letto, sempre tenendole la mano serrata contro la bocca. Non tentò neppure di dibattersi mente la adagiavo sul letto. Tolsi la mano dalla sua faccia e, prima che potesse urlare, le ficcai uno straccio nella bocca.
Avevo già preparato tutto. Rapidamente le legai mani e piedi ai pomoli del vecchio letto, in una sorta di croce di Sant’Andrea. Quindi le tolsi lo straccio dalla bocca, che sembrava soffocarla, e lo sostituii con una robusta correggia di cuoio.
Purtroppo quella fascia le nascondeva una parte del suo bel visino, in particolare quelle labbra che avevo tanto sognato di baciare. Ma, al momento, non avevo alternative.
Misi una sedia accanto al letto ed iniziai a parlarle il più dolcemente possibile. Volevo che si calmasse, che sparissero dai suoi occhi quei lampi di paura. Le raccontai la mia vita, le frustrazioni derivante dalla mia bruttezza anormale, la mia solitudine, la mancanza d’amore. Le affermai che solo lei aveva saputo accendere in me un bagliore di speranza, ma che il suo rifiuto ed il suo disprezzo mi avevano condotto alle soglie della pazzia.
Ad un certo punto, sembrandomi più tranquilla, iniziai ad accarezzarle i lunghi capelli neri. Con un moto di repulsione, Anna cerco di allontanare la testa e sottrarsi alle mie carezze.
“Ti faccio schifo, vero?” le ringhiai, mentre sentivo montare dentro di me una collera cieca, che mai avevo provato.
La schiaffeggiai violentemente e ripetutamente. Le guance della ragazza si arrossarono. Iniziò a piangere con singhiozzi strozzati dalla pesante striscia di cuoio.
“Piangi, piangi pure… Prova anche tu cosa significa soffrire.”
Mi rendevo conto del vortice di follia in cui stavo lentamente ma inesorabilmente sprofondando. Ormai niente e nessuno poteva fermarmi. Per la prima volta in vita mia mi sentivo forte. Ero io a dominare la situazione. Anna, in quel momento, rappresentava tutti coloro che mi avevano umiliato, offeso, deriso, disprezzato.
Dovevo vendicarmi, umiliare, sottomettere quel simbolo di tutte le angherie patite. Lei più di tutti mi aveva ferito e pugnalato nel cuore. Lei, più di tutti e per tutti, doveva pagare.
“Dio, perché hai fatto di me un mostro così ripugnante?” urlai. “Che colpa ne ho io, se sono cosi!”.
Poi, inaspettatamente, mi placai. Una calma fredda, lucida, determinata.
Iniziai a spogliare la ragazza, ma le corde che la legavano al letto m’impedivano di farlo agevolmente. Presi un paio di forbici e lentamente incominciai a tagliarle i vestiti. Il golfino, la blusa, la sottoveste di seta, la maglia leggera di cotone. Poi la gonna, le scarpette, le calze di filo bianco. Rimase in culottes e reggipetto.
Anna era in preda al panico, ma non aveva più la forza per dibattersi. I suoi occhi sembravano supplicarmi, ma non provai alcuna compassione. Con le mani le strappai il reggiseno e quindi le mutande. Completamente nuda, sembrava ancora più indifesa, del tutto e inesorabilmente in mio potere. Mi fermai a contemplare, per la prima volta, quel corpo di donna. Quante volte lo avevo visto con la mente e disperatamente desiderato. Finalmente era mio, potevo farne tutto ciò che volevo, tutto quello che avevo sognato nelle mie fantasticherie più torbide.
Iniziai a spogliarmi anch’io. Ormai avevo una sola idea fissa e martellante nella testa: possedere Anna, penetrare in lei, violarla e prendermi quello che mi era stato sempre negato.
“Anche questo ti fa schifo?” dissi alla ragazza avvicinando alla sua faccia il mio sesso turgido e spropositatamente grosso. Ne ebbe paura, lo capivo dalle sue pupille dilatate. Era ben conscia di quello che la aspettava. Le slegai in fretta le gambe per poterla possedere più agevolmente. Lei tentò di serrarle, in un ultimo e disperato tentativo di difendersi. Gliele divaricai con forza, mettendo oscenamente in mostra il suo sesso.
Mi coricai pesantemente su di lei e, nel parossismo dell’eccitazione, puntai il mio pene contro le piccole fessure rosee della sua vagina. Adesso si dibatteva furiosamente, in preda ad un panico incontrollabile. I suoi movimenti convulsi e frenetici mi eccitavano sempre di più. Le afferrai i piccoli seni sodi e, stringendoli con violenza, mi accinsi a penetrarla. In quel preciso istante eiaculai miseramente, inondandole di sperma i riccioli neri del pube e il ventre contratto, senza provare alcun godimento.
“Noooo…” urlai, “non puoi farmi anche questo, maledetta!”.
Mi rialzai da lei. Il mio pene pendeva ormai penosamente afflosciato. Un’ira brutale tornò ad impossessarsi di me. Avevo fallito ancora una volta. Per colpa sua. Avrebbe pagato cara anche questa mia ennesima sconfitta! Non sentivo più alcun impulso sessuale, nessuna attrazione fisica per quel corpo di donna. Solo un travolgente e rabbioso desiderio di vendetta.
Volevo che Anna sapesse cosa l’aspettava e glielo dissi con raccapricciante soddisfazione, sogghignando: “Tesoro, ti ammazzerò. Morirai lentamente, ti farò patire le pene dell’inferno e mi divertirò a vederti soffrire negli spasimi dell’agonia!”.
La sua faccia si contrasse in una smorfia agghiacciante d’orrore e di sgomento senza fine.
Quello che seguì fu un incubo mostruoso, che ho cancellato quasi completamente dalla mia mente. Ho dei ricordi confusi. Forbici, coltelli, sangue, tanto sangue… Il lezzo della morte e delle secrezioni.
Le ore terribili di esaltazione mentre infierivo sistematicamente e con lucida crudeltà su quel corpo sempre più martoriato e seviziato. Il pianto irrefrenabile dopo aver visto l’ultimo sussulto di Anna e le sue orbite vuote e sanguinolenti. Orrore, disperazione, paura…
Poi di nuovo la calma e la consapevolezza razionale di dover cancellare ogni traccia di Anna e di quelle ore spaventose. Quello che dovetti fare fu, se mai era possibile, ancora più macabro e raccapricciante della lunga e terribile agonia che avevo inferto alla ragazza.
Quella notte Anna uscì dalla mia soffitta. Un pezzo alla volta. Quanto camminai, per cercare i luoghi più adatti per far scomparire per sempre quei miseri resti!
Poi fu la volta del materasso e delle lenzuola. Il fiume e le rogge avrebbero lavato e trasportato lontano i brandelli di stoffa e di crine. Tornato nella soffitta, lavai accuratamente ogni goccia di sangue rappreso, ogni residuo, qualunque cosa potesse suggerire la presenza di Anna in quella stanza. Recuperai un vecchio materasso di riserva che tenevo, per improbabili ospiti, arrotolato sopra il piccolo guardaroba e rifeci il letto. Sfinito, mi gettai sul giaciglio e dormii per un’intera giornata.
Anna viveva da sola e solamente dopo un paio di giorni i titolari della cartoleria, impensieriti per l’assenza della ragazza, avvisarono i suoi genitori, che abitavano in un paese della provincia. Costoro si rivolsero alla polizia. Naturalmente le prime indagini riguardarono i conoscenti maschi della ragazza.
Qualcuno fece il mio nome e un anziano sovrintendente venne a farmi visita, accompagnato da un giovane agente. Dopo un breve interrogatorio, mi chiesero il permesso di perquisire la stanza. Acconsentii senza esitazioni. La loro ricerca non diede alcun frutto e se ne andarono, insoddisfatti ma apparentemente senza il minimo sospetto.
La notizia comparve nella cronaca dei giornali locali. Poche righe nelle quali si faceva cenno alla scomparsa di una giovane donna. La tesi della polizia, che non aveva scoperto il minimo indizio, era che Anna fosse fuggita con un giovane studente dell’università di cui si erano perse le tracce negli stessi giorni.
Nessun poliziotto venne più a bussare alla mia porta. Nessuna delle piccole “parti” in cui avevo suddiviso il corpo di Anna fu mai trovata e recuperata.
Della ragazza, però, mi tenni un ricordo. Lo avevo avvolto nella federa del cuscino su cui aveva appoggiato la testa per l’ultima volta.
Avevo sotterrato il tutto in un terreno abbandonato nei pressi del fiume, lontano dalla città. Attesi due anni prima di andare a recuperare il mio bottino. La terra ed i vermi avevano fatto un buon lavoro.
Il teschio di Anna era del tutto privo di brandelli di carne e dei suoi lunghi capelli corvini. Lo portai nella mansarda. Lo lavai accuratamente. Con molta cautela ne estrassi i 28 piccoli denti.
Li lavai, li lucidai con cura e li misi nel cofanetto rivestito di velluto rosso che un tempo aveva contenuto l’anello di mia madre, quell’anello che, venduto ad un ottimo prezzo, mi consentì di pagarmi gli studi di medicina.
Frantumai con un martello il cranio sdentato di Anna e misi i minuscoli frammenti d’osso in un cartoccio che il giorno dopo gettai nel fiume.
Ripongo con delicatezza le 28 perline nella s**tola di velluto rosso. “Ciao, Anna” mormoro richiudendo il cassetto della vecchia scrivania. “Riposa in pace ovunque tu sia”.
Mille notti di lussuria
di Antonio Fusco e altri